Tekés era un locale con finalità e natura ambigue: un bancone da taverna, due o tre bottiglioni di liquori colorati e le saracinesche sempre mezze abbassate. Un posto dove ci si incontrava per fumare il narghilé, chiacchierare, trovare l’amore a pagamento e perdere il tempo con gli amici. Un piccolo spazio oscuro e fumoso dove l’illegalità si mescolava con l’intrattenimento; la borghesia con la malavita. Un modo di passare le serate importato in Grecia dagli immigrati cacciati dalla Turchia dopo la Katastrofì del 1922; un punto di incrocio tra Oriente e Occidente. Un viaggio nel tempo che con le canzoni rebetike, i canti urbani, la musica dei negri ellenici, ci riporta alla prima metà del secolo scorso, in un’epoca dove la povertà e la fatica di vivere si vincevano cantando e stando insieme. Una musica alternativa, mistikì, nascosta, rispetto alla globalizzazione delle proposte contemporanee. “Praticare il rebetiko oggi è un modo di uscire dal girone delle discoteche, dei club, del meccanismo che c’è dietro. Dalla pubblicità delle mode giovanili. Trovarsi a casa. Stare nel proprio. Con una musica che parla di te, e non di qualcuno che non conosci nemmeno.” (dal Tefteri di Vinicio Capossela)