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28 agosto | 5 settembre 2010di
Matteo Tacconi
Le città cambiano, si modificano, s’infilano addosso vesti nuove, seguono i cambiamenti socio-economici, muoiono e risorgono, si espandono e si contraggono. Da sempre, nei secoli e nei secoli.
Ogni trasformazione è gravida di tensioni tra passato e presente, tra tradizione e modernità. Alla fine, però, il nuovo avanza e s’afferma. Il prima, martellato dal dopo, assume così le forme della suggestione. Si fa ricordo. Sbiadisce e sfuma. Diventa cartolina.
Ne sono esempio la Roma della dolce vita, la Parigi della belle époque, la Praga magica, la Vienna della secessione.
Le tracce di questi miti sono, adesso, evanescenti e pallide. Seguirle è immaginazione, prima di tutto.
Questa regola vale anche altrove, anche in altre grandi città. Questa regola è universale. A Istanbul, tuttavia,
attecchisce più difficoltosamente.
È vero, certamente, che la metropoli turca, alla stregua di altre grandi città europee, asiatiche, americane, ha
cambiato pelle, seguendo anch’essa le trasformazioni partorite durante il “secolo breve” e in periodi più recenti.
Istanbul è passata, in cent’anni, da una popolazione di 1,5 milioni di persone ai 15-20 milioni attuali. È cresciuta
a dismisura, ha visto proliferare decine e decine di nuovi quartieri. Ha perso il rango di capitale, ha assistito
all’agonia e alla morte di un impero e alla nascita e al consolidamento di una repubblica. S’è trasformata da città
multietnica a città esclusivamente turca. Ma c’è qualcosa che rimane immutabile e che anche ora, malgrado la
marcia inarrestabile dei tempi, costituisce la cifra di Istanbul: la strada.
Ieri come oggi, la cultura e la vita della strada rappresentano uno dei pilastri, se non il pilastro, della megalopoli
sul Bosforo. La strada è sempre e comunque la grande e cocciuta protagonista. Ieri come oggi, sulla strada ci
s’inventano mestieri, si mercanteggia, si sgobba e si sbuffa, si discute animosamente e ci si rifocilla, si va e si viene,
si discute e si prega, si medita e s’improvvisa, si corre e si rallenta, in un trambusto eccitante e senza fine che certe
nostre città, i cui centri e le cui vie storiche sono diventati vetrine all’aria aperta, asettici e meccanici, hanno
smarrito da tempo.
La strada è rimasta l’anima indelebile di quello che Istanbul è stata, di quello che è, di quello che sarà. Non c’è
bisogno di andare a ritroso, né di immaginare, né di rispolverare. La strada è sempre lì, a dettare i ritmi, a fare la
fortuna e la sfortuna di quella “gente di Istanbul” – mercanti, venditori di cianfrusaglie, pescatori, fedeli,
personaggi folcloristici, ristoratori, avventori di locali, sciuscià, rigattieri, pendolari, ragazzi che giocano all’aria
aperta – che nella strada trova l’altra sua dimora quotidiana e che Matteo Tacconi, nel suo reportage fotografico,
immortala.
Matteo Tacconi, perugino, classe 1978, è giornalista professionista. Si occupa di Europa centro-orientale, Balcani e area post-sovietica. Viaggia, scrive e a volte fotografa per varie testate italiane, tra cui Europa, East, Limes, Narcomafie, Reset, Popoli. È autore di Kosovo: la storia, la guerra e il futuro e di C’era una volta il Muro: viaggio nell’Europa ex-comunista, entrambi editi da Castelvecchi, rispettivamente nel 2008 e nel 2009.
Le fotografie della mostra sono in vendita - per informazioni rivolgersi al desk infopoint.
Per tutta la durata dell’Adriatico Mediterraneo Festival
dal
28/08/2010 al
5/09/2010 | orario
17.00 -
24.00